NewsCambi di passo – Paola Dubini – Linee guida 5 ottobre

Cambi di passo – Paola Dubini – Linee guida 5 ottobre

Riparti Italia, riparti cultura: ruolo e prospettive delle istituzioni culturali dopo il lockdown – Fondazione Feltrinelli 5 ottobre 2020
Cambi di passo. Paola Dubini – centro ASK – Università Bocconi
 

Premessa

L’oggetto della mia riflessione introduttiva al dibattito del 5 ottobre sono le condizioni di sostenibilità economica delle istituzioni culturali. Data la natura dell’incontro, posso permettermi il lusso di dare per scontato (cosa che non necessariamente sempre è) il valore storico, culturale e sociale connesso alla conservazione e alla valorizzazione della memoria e del patrimonio, realizzati attraverso un ampio arco di attività che vanno dalla ricerca alla divulgazionee concentrarmi invece sul cambiamento di contesto collegato alla pandemia e sulle implicazioni per la capacità delle istituzioni culturali di durare nel tempo.  Questo taglio alla nostra riflessione inevitabilmente ci costringe a focalizzarci sugli elementi di accelerazione e di discontinuità rispetto a pubblici, pratiche e risorse, ma anche a distinguere fra effetti di breve e di lungo periodo come punti di partenza per orientare alcune scelte critiche: quali attività intraprendere, quali abbandonare, dove reperire le risorse necessarie.
 
Poiché questo è un documento introduttivo e prodromico ad una riflessione comune, ho pensato di scandire il ragionamento in tre macro temi, che inevitabilmente saranno solo abbozzati: il cambiamento del contesto, le implicazioni gestionali, fabbisogni e fonti. Mi piace pensare che a valle della discussione possa essere ripreso, integrato, arricchito di qualche esempio specifico e reso pubblico in modi da decidere. Questo non solo perché spesso nei mondi della ricerca “si fa così”, ma perché se da un lato è ancora troppo presto per individuare le nuove “buone pratiche” (metodo di analisi molto utilizzato nella mia disciplina), dall’altro è molto opportuno, a me pare, che le istituzioni culturali si colleghino fra loro e con interlocutori diversi molto più e in modi più articolati rispetto al prelockdown.  E quindi mi pare opportuno condividere con pubblici più ampi riflessioni anche in fieri.
 

Il cambiamento del contesto

Sappiamo bene che cosa è successo nei mesi passati alle istituzioni culturali e a tutti noi: un improvviso e intensissimo cambio di contesto: luoghi della cultura chiusi, attività in remoto e non più in presenza, maggiori connessioni, minori relazioni di persona e con un numero ridotto di persone. Consumi bulimici di contenuti, in particolare digitali, per occupare tempo e pensieri. Distribuzione fisica in tilt, attività in presenza azzerata dalla sera alla mattina.Convegni, conferenze, dibattiti, incontri, festival … tutti spostati in rete e alcuni semplicemente cancellati.
 
I mesi di lockdown sono stati un tempo sospeso, in cui il contesto si è fatto più rarefatto, più vuoto e in cui i mondi della cultura si sono immediatamente e freneticamente messi a “correre sul posto”., da un lato per svolgere attività che normalmente “restano indietro”, dall’altro per valorizzare  il catalogo, dall’altro ancora per sperimentare nuovi modi di comunicare, di produrre e diffondere conoscenza, di restare in contatto con i loro pubblici. Il silenzio e le piazze vuote, ci hanno restituito con immediatezza il significato della parola monumento. La riduzione nella produzione di novità in tutti i settori culturali ha riportato in auge i cataloghi, gli archivi, la memoria. E va riconosciuto che la pandemia ha reso possibili sperimentazioni e cambiamenti che avrebbero impiegato molto più tempo a realizzarsi in assenza di choc.  
 
Se il lockdownha prodotto uno tsunami, il dopo lockdown ha caratteri molto più sfumati e di difficile interpretazione; se il lockdown è stato breve ma intenso, il dopo è lungo e incerto.  L’ambiguità è il carattere che più mi colpisce dell’attuale momento e dell’attuale contesto in cui le istituzioni culturali si trovano ad operare.  Improvvisamente, dobbiamo porre grande attenzione ad incorporare nelle nostre parole e nelle nostre affermazioni una sfaccettatura di significati.
 
Prendiamo ad esempio la questione delle disuguaglianze: più che “semplicemente” accentuare le disuguaglianze, a me pare che la pandemia abbia allargato lo spettro delle possibili fonti di disuguaglianza – economica, sociale, tecnologica, di genere, generazionale – rendendo quindi più difficile porre in atto meccanismi compensativi efficaci.  
 
Ancora: una diversa organizzazione del tempo, del lavoro e degli spazi ha modificato i comportamenti e i consumi e determinato un aumento significativo dei consumi culturali digitali, anche perché, contestualmente, l’offerta di contenuti culturali in formato digitale – soprattutto gratuiti – è aumentata esponenzialmente.  Non sappiamo ancora se questa accresciuta attenzione alle produzioni culturali digitali è destinata a consolidarsi, né a beneficio di chi; appena è stato possibile le persone hanno ripreso a frequentare spettacoli, conferenze, incontri, dibattiti, ma la ripresa non è un ritorno allo stato pre pandemia. “Ibrido” è l’aggettivo che qualifica il modo di accedere alla conoscenza: che sia una lezione universitaria, un convegno, un festival. Ma siamo lontani da aver trovato una definizione condivisa di ibrido a partire dalle pratiche messe in atto.  
 
La nostra socialità e il nostro rapporto con la conoscenza – individuale e collettivo – si sono modificati. Da una parte siamo più connessi: la pandemia ha aumentato per necessità e curiosità  la familiarità delle generazioni più adulte con le diverse piattaforme. Ci siamo resi conto e ci aspettiamo che molte più risorse informative e di ricerca siano disponibili in rete, mentre diventiamo via via più insofferenti, qualora le modalità di accesso non siano semplici, intuitive. La qualità e la rarità dei contenuti non giustificano la non disponibilità in rete, o una accessibilità macchinosa. Le relazioni mediate da uno schermo hanno permesso ad alcuni studenti più timidi di partecipare attivamente, magari anche perché i loro insegnanti hanno dimostrato di essere loro stessi in difficoltà in un contesto didattico, pedagogico e di ricerca non usuale. Allo stesso tempo, la solitudine si è rivelata per molti difficile da sostenere. Rispetto alle conoscenze, negli ultimi mesi assistiamo contemporaneamente ad un maggiore riconoscimento del ruolo e dell’importanza degli esperti e a crescenti popolarità e credito di teorie complottiste, bufale ed effetti di infodemia, cui è progressivamente più difficile resistere anche da parte di persone mediamente attrezzate da un punto di vista culturale.
 
Per mesi la nostra socialità è stata governata per decreto, mentre ora assistiamo contemporaneamente a comportamenti francamente irresponsabili, a comportamenti non coerenti in funzione delle circostanze, a comportamenti guidati dal desiderio di ritornare a “fare tutto come prima”, ad atteggiamenti dominati dalla paura e rinunciatari.  Non senza una certa apprensione per la possibilità che la pandemia riparta con decisione nei mesi invernali nel nostro paese, il presente è attraversato da una certa “ebbrezza da ritorno”: ritorno in aula, a teatro. Tornare al “new normal” ha prodotto e produce allegrezza e voglia di sperimentare. 
 
Non stupisce che a fronte di una diffusa ambiguità di contesto e in presenza di molte situazioni ibride, un atteggiamento molto diffuso sia lo smarrimento o comunque la prudenza: del resto, quando si guida nella nebbia ci si sente sopraffatti e si procede con cautela, magari cercando qualche faro da seguire.
 
Ci sono però bisogni emergenti molto rilevanti. che ingaggiano anche le istituzioni culturali ad una risposta pragmatica, significativa e culturalmente all’altezza della loro reputazione. Ne cito tre:
 

  • -8 milioni di studenti e 1,6 milioni di iscritti alle universitàtornano in aula dopo un semestre di didattica a distanza e sollecitano risposte sul piano dell’offerta culturale di qualità che non possono essere date balbettando, né ignorando il fatto che per mesi il principale se non l’unico canale di accesso alla conoscenza è stato attraverso il digitale.

 

  • Il profondo cambiamento nel lavoro e nei consumi in ambito urbano ha avuto un effetto immediato sull’economia e sul funzionamento delle città. Dei 37 milioni di arrivi annui a Venezia, 27 sono stranieri e le proporzioni sono confrontabili a Roma e a Firenze. Città come Milano e Londra, in cui molte aziende pubbliche e private ricorrono allo smart working in misura massiccia,mostrano una maggiore tenuta del tessuto economico e sociale nei quartieri e un calo di traffico e di appeal delle zone centrali. La possibilità di realizzare città “dei 15 minuti” richiede agli amministratori di guardare con occhio diverso l’infrastruttura cittadina. E’ bene che l’infrastruttura culturale sia un pezzo rilevante della soluzione, perché i cittadini non sono solo contribuenti e le organizzazioni culturali non sono solo erogatori di servizi: ma non è in genere in cima alla lista nelle dichiarazioni programmatiche degli amministratori, premessa indispensabile per la distribuzione di risorse pubbliche a valore strategico.

 

  • Sappiamo che,ceterisparibus, le donne e i giovani hanno subito più che proporzionalmente gli effetti negativi della pandemia. Stiamo parlando rispettivamente di metà e del 16% della popolazione nazionale (se consideriamo la fascia d’età 20-35 rispetto ai dati ISTAT al 2019).  La dimensione di questi due gruppi sociali fa sì che non ci sia territorio e non ci sia famiglia che non siano in qualche modo toccati dal problema.  

 
Le questioni sono semplicemente troppo grandi e troppo importanti per non toccare anche le istituzioni culturali.Si tratta di problemi sistemici rilevanti, di complicata soluzione, che richiedono interventi sistemici. Le istituzioni culturali possono essere parte della soluzione. Durante il lockdown, i mondi della cultura hanno fatto molto per la società e per i loro pubblici, e a me pare che in generale l’opinione pubblica l’abbia riconosciuto. Durante la pandemia, i mondi della cultura, anche le istituzioni culturali più lontane dal grande pubblico per il tipo di attività che svolgono, hanno smesso di essere invisibili oltre la ristretta cerchia dei loro “aficionados”. 
 
Non è però scontato che oggisi pensi a loro come a uno sparring partner, così come non è scontato che le istituzioni culturali voglianodavvero essere parte attiva della soluzione. Vedo molte ragioni per questa distrazione da parte degli amministratori e dell’opinione pubblica, ma in due parole direi che è riconducibile ad una supposta idea che le istituzioni culturali siano mondi a sé, autoreferenziali.
 
La scommessa è dimostrare che non è vero. Il rischio è essere considerati (e ahimè diventare) irrilevanti, in un momento invece nel quale senza una infrastruttura culturale solida non si va da nessuna parte. Contesti ambigui suggeriscono prudenza, contesti in profonda trasformazione chiedono imprenditorialità culturale.  I tempi che stiamo attraversando ci mostrano entrambe le facce del contesto: sta a ciascuno decidere come interpretarli.  L’AICI, come rete e come soggetto rappresentativo della maggior parte delle fondazioni e degli istituti, può svolgere un ruolo importante nell’accompagnare e nel sostenere le istituzioni culturali in questa “traversata verso l’ignoto”.
 

Alcune implicazioni gestionali: un cambio di postura e di pratiche

Davanti a un contesto ambiguo ed incerto, in genere le organizzazioni (tutte le organizzazioni) “tirano i remi in barca”: tagliano costi e rami secchi, cercano di ridurre i costi fissi, accettano un temporaneo calo di dimensioni in attesa dell’evolvere degli eventi.
 
Davanti all’esplosione di “mercati”e “bisogni”, in genere, le organizzazioni investono, cambiano i processi, si rendono visibili il più possibile, si pongono il problema di rappresentare nelle loro attività, nella scelta dei temi da affrontare, del taglio e degli output, in modo da valorizzare la loro specificità, il loro particolare modo di affrontare il bisogno e il contributo particolare offerto dal loro patrimonio e dalle loro relazioni. In un momento di discontinuità, le organizzazioni imprenditoriali – quando hanno successo – plasmano il contesto in cui sono inserite, invece di subirlo.
 
In parte, la scelta della postura da tenere si lega alla valutazione da parte di ciascuna istituzione in merito alla durata dello stato di ambiguità. I cambiamenti che sono stati innescati durante i mesi di lockdown sono destinati a durare? o piuttosto si ritornerà progressivamente alla situazione e alle pratiche preCovid?  E in questo caso, quanto tempo sarà necessario (comportamento del virus a parte) perché tutto rimanga com’è?
 
E’ una sfida grande, soprattutto per le organizzazioni culturali che per missione interpretano e stimolano la società.  Anche perché alcune delle strategie “classiche” – valide e ampiamente utilizzate dalle imprese – fanno particolarmente “colpo” se messe in atto per esempio da un museo. E’ purtroppo molto frequente che – in momenti di crisi – le imprese cancellino attività o cerchino di trasferire su collaboratori esterni e su fornitori i costi della crisi; se però il MoMA lascia a casa durante la pandemia i responsabili dei servizi educativi, la notizia ci sgomenta: non ci aspettiamo forse che proprio durante la pandemia i musei investano sui servizi educativi?
 
Tirare i remi in barca non è facile per istituzioni culturali con una struttura di costo molto rigida, dipendenti da poche fonti di finanziamento, con vincoli molto stretti di pareggio economico con una scarsa abitudine a guardare i numeri come conseguenza delle proprie scelte di posizionamento culturale: i costi maggiori a copertura delle attività più rilevanti, il numero e la varietà di accessi e di partecipanti come indicatore di qualità culturale.
 
Diventare imprenditori culturali è ancora più difficile. “Uscire” dalla sfera tradizionale di attività, o meglio reinterpretarla arricchendola è tutt’altro che facile, anche se lo choc esogeno è stato forte. Un aspetto al quale secondo me non si pone abbastanza attenzione è il fatto che le organizzazioni culturali (e in particolare le istituzioni più prestigiose di conservazione della memoria) sono molto vincolate dalla loro storia e dalla loro reputazione. Innovare nel rispetto della tradizione è molto difficile, per un problema di autenticità e di coerenza.E’ stato più facile per Chiara Ferragni parlare con tono appropriato della sua esperienza agli Uffizi e rafforzare la propria reputazione, che per gli Uffizi parlare con tono appropriato della visita della Ferragni e capitalizzare sulla visibilità ottenuta sui social media. La figura sottostante mostra l’evoluzione delle ricerche su Google per le parole chiave Uffizi (in blu), Botticelli (in giallo) e Louvre (in rosso) a partire da gennaio 2020. Come si può notare, sia gli Uffizi che il Louvre hanno avuto una crescita delle ricerche e delle visualizzazioni a seguito dello scoppio della pandemia; questa attenzione è andata calando per il Louvre man mano che si usciva dalla prima fase della pandemia, mentre le visite al sito degli Uffizi sono state sostenute da una serie di attività, che culminano con il picco di visualizzazioni in occasione della visita della Ferragni.
 
Eppure è una sfida che non si può non raccogliere. Credo basti a convincerci la recentissima pensata collettiva  su TikTok (che per fortuna l’ha bloccata), la sfida #Holocaustchallenge – in cui adolescenti interpretano la parte di ebrei deportati nei campi di concentramento, con l’apparente desiderio di sensibilizzare l’opinione pubblica e con l’obiettivo di massimizzare il numero di visualizzazioni – per evidenziare il disperato bisogno di fonti autorevoli per tramandare la memoria, che però siano in grado di parlare i linguaggi del presente a beneficio delle generazioni del futuro.
 
Un altro aspetto delicato nella ricerca di innovazione nella tradizione è dato dalle aspettative e dal comportamento dei propri interlocutori storici. Ne sa qualcosa Newsweek (neanche una istituzione di conservazione, ma una impresa di informazione) che a dicembre 2012 ha deciso di smettere di pubblicare la versione cartacea della rivista nel tentativo di affrontare in chiave contemporanea la trasformazione dell’editoria e di dirottare le risorse sui prodotti digitali. L’edizione cartacea è stata reintrodotta nel 2014, con ingenti perdite, in risposta alle critiche inferocite dei suoi lettori più fedeli. 
 
E’ evidente che il “cambio di postura” non avviene in un battibaleno ed è credibile se permea tutta l’organizzazione, impattando attività, processi, organizzazione. Consideriamo ad esempio la questione “digitalizzazione”. Il termine in realtà abbraccia temi diversi, dal rapporto fra rapporti di persona e virtuali, alla smaterializzazione di documenti, alla riconfigurazione di prodotti e attività, alla produzione di nuova conoscenza a partire da contenuti digitali. Tendiamo a considerare la relazione in presenza e la fisicità dei documenti come modi “caldi” di accedere alla conoscenza rispetto alla “freddezza” e alla “distanza” del digitale, ma è anche vero che nei mesi del lockdown sono proprio state le tecnologie digitali a rendere possibile il mantenimento di relazioni interpersonali e elemento abilitante per costruire comunità. E quindi la scommessa sembra essere più legata ai modi di sviluppare un’offerta digitale, nella direzione di umanizzare la tecnologia, più che all’opportunità di farlo.
 
Molte istituzioni hanno nel tempo digitalizzato alcuni fondi e li hanno resi disponibili online. Ma è ormai ampiamente noto che ogni progetto di digitalizzazione deve considerare anche la valorizzazione come parte integrante del progetto. Il fatto che documenti anche rilevantissimi siano disponibili online ne aumenta l’accessibilità, ma non necessariamente l’accesso. E se guardiamo a come diverse istituzioni culturali hanno declinato la loro presenza in rete, intuiamo nonsolo la dimensione e la continuità dell’investimento, ma il grado di integrazione della strategia digitale con i processi complessivi e il diverso significato attribuito alla presenza in rete.  I siti di importanti istituzioni culturali fungono da archivi digitali di mostre, di documenti, rimandano a risultati di ricerca multimediali, raccolgono kit didattici strutturati. 
 
Allo stesso tempo, è noto che l’attività in rete aiuta a segnalare e comunicare più che ad attivare comportamenti partecipativi e a fidelizzare le relazioni. Da questo punto di vista, trovo particolarmente interessanti gli sforzi di produzione di nuova conoscenza attraverso progetti crowdsourceda partire da documenti digitalizzati. New York Public Library ha da anni sviluppato progetti diversi nella direzione di costruire conoscenza collettiva, e a me pare un bel riferimento.  Come mi pare un bel riferimento – per stare agli esempi americani – la New York Philharmonic, che ha sviluppato progetti diversi di valorizzazione (alcuni in specifico durante la pandemia).  Mi pare che nell’identificazione di un posizionamento digitale, le istituzioni culturali siano chiamate a considerare al contempo processi culturali e processi sociali.
 
In questo cambio di passo, vedo tre elementi rilevanti da considerare:

  • La dimensione minima necessaria per cominciare a lasciare un segno.  100 persone in presenza che seguono una conferenza sono un ottimo risultato. 100 persone iscritte a un webinar online sono poche.  La scommessa è raggiungere un massa critica sostenibile da un punto di vista economico, mantenendo però una forte prossimità con i propri pubblici, compensando la scarsa carica emozionale del digitale.

 

  • Le alleanze. Credo sia molto difficile cambiare passo da soli. Servono alleati, politici, tecnici, economici. Mi aspetto che aumenterà laformazione e il rafforzamento di reti, a livello locale, nazionale, transnazionale. Mi sembra ad esempio che la riforma del terzo settore non abbia contemplato adeguatamente gli enti culturali e di ricerca; si tratta ora di valutare gli assetti di governo più adatti alla luce del cambiamento legislativo. Un altro alleato “naturale” è costituito dalle università: occorre però mettere a fuoco come rendere più stabile il legame a beneficio di entrambe le istituzioni e della crescita collettiva della conoscenza, magari attivando borse post-doc e occasioni di visibilità e pubblicazione. Si parte quasi sempre dalla collaborazione con uno specifico centro di ricerca di una specifica università, ma la sfida è come “industrializzare” una relazione da cui entrambi gli interlocutori trarrebbero beneficio. Valuterei anche il ruolo dei corpi intermedi, per esempio dell’AICI, e mi proporrei di riflettere su quale ruolo può svolgere per aiutare al meglio i suoi associati. Può diventare una piattaforma? Può centralizzare alcuni servizi? Su quali azioni di advocacy è bene si concentri (per esempio il regime fiscale delle sponsorizzazioni, la flessibilità dei contratti di lavoro …). Si tratta di temi rilevanti non solo per le istituzioni culturali: la costruzione di alleanze.

 

  • Una attenzione più spinta ai bisogni degli interlocutori. Se i problemi emergenti sono sistemici, mettersi nelle scarpe delle diverse categorie di interlocutori aiuta a concentrare gli sforzi e a orientare le scelte; questo naturalmente non significa snaturare la propria identità, ma caratterizzare la propria offerta, e dare specifico significato ai processi di ibridazione.  Inutile dire che il tema della relazione con le generazioni più giovani mi pare particolarmente pressante.

 

Fabbisogni e fonti 

I risparmi di costo legate all’interruzione di alcune attività sono stati limitati per molte organizzazioni culturali; in compenso ci sono state riduzioni importanti di ricavi da biglietteria e molte iniziative non sono state realizzate, rendendo difficile la raccolta di sponsorizzazioni. In compenso, la riapertura ha comportato l’inserimento di una serie di procedure (con costi connessi), richiedendo al tempo stesso una dose non indifferente di flessibilità per adattarsi all’evolversi degli eventi. Insomma, il sistema di vincoli in cui costruire la sostenibilità economica delle istituzioni culturali cresce.  
 
E’ ragionevole aspettarsi che i prossimi mesi saranno difficili per le istituzioni culturali. La fase dell’emergenza si è tradotta in una serie di richieste di sostegno al ministero presentate dalle diverse filiere culturali e categorie professionali.  La preoccupazione dominante è stata sostenere davanti allo choc una serie di settori complessivamente molto fragili. 
 
Non credo che questo modo di procedere sia efficace per gestire la nuova normalità e non credo peraltro continuerà per molto. Vedo purtroppo molto più probabile una distrazione progressiva degli interlocutori pubblici e privati, pressati da altre urgenze e poco propensi a vedere quello che a me pare evidente: che senza istituzioni culturali forti (che ci radichino, ci incuriosiscano, ci educhino e migliorino la nostra reputazione e la nostra capacità di affrontare il presente) non si esce dai tempi incerti, che è quello che tutti auspichiamo.  E se pure è vero che le organizzazioni culturali che dipendono ampiamente da fondi pubblici sono in difficoltà minore rispetto a quelle con una più ampia incidenza di autofinanziamento (in particolare quelle che attirano numerosi visitatori stranieri), è la diversificazione delle fonti di finanziamento che aumenta la possibilità di essere sostenibile nel tempo, perché distribuisce il rischio.  Mi aspetto che molte energie saranno dedicate ad attività di fundraising. Come fare?
 
Anche in questo caso, suggerisco di mettersi nelle scarpe del proprio interlocutore, che ragionevolmente sarà assediato da richieste di sostegno. Credo che in alcuni casi, proporre di sostenere una causa o una categoria di bisogni o di destinatari rispetto ai quali la reputazione e l’attività dell’istituzione culturale sono rilevanti possa essere una strada.
 
Ancora, penso ci sia bisogno di lavorare alla sostenibilità e alla attrattività dei territori. Il lockdown inevitabilmente ha reso la globalizzazione un po’ più difficile da realizzare, ha messo un po’ più in difficoltà le città rispetto a territori più piccoli e rende più attenti amministratori e imprese locali alla valorizzazione del territorio.Come intervenire ad esempio per sostenere le scuole e le università del territorio in questo momento? quali azioni hanno messo in atto gli associati AICI che possano essere replicate in altri territori e promosse come rete?
 
Nell’interlocuzione con gli operatori pubblici, soprattutto locali, farei grande attenzione alle direzioni di investimento europeo: i fondi strutturali, Europa creativa, Horizon, sono possibili “agende” nelle quali cercare uno spazio anche per le istituzioni culturali. Se gli amministratori non se ne accorgono, bisogna farglielo notare.